lunedì, febbraio 22, 2016

de espaldas (a Orfeo)


Después de tanto juez y parte, de tanto parto y partida de frente; de tanto ver hasta lo invisto e invidente mirar el lunar en la boca, el puto punto ciego, la pinche viga famosa y al mezquino arrugarse también; tras tanto y tanto guiño cìclope y pasmo de ojo tan insaciable cuan indigesto que fácil recorta, la distancia cortando e insecto; ¿sabes algo? no sé, quizá, llegó la hora de ya no darnos la mano ni la boca, de pará y para parar en un tiempo y darnos y darnos, con todas las espaldas y dejar de vernos: de frente, de perfil, pero sobre todo de reojo y de reojete.
Quizá, si podemos no mirarnos más, no conocernos más (tanto ya sabemos que somos, quién más quién menos, en un desastre), quizá podemos ya no desesperar y ya mirar nada más hacia otros lados, más peligrosos, más desesperanzados, desapercibidos. Quizá podemos ya no penetrarnos hasta ya no saber de quién son los ojos; quizá ya sólo sentir un calor, una nuca erizarse los pelitos que lo diga todo lo que hay, para saber. Quizá aún reconocer, ahí, a treintaitrés abuelitas calientes y en fila que nos sostienen. Quizá darnos sólo los culos, las espaldas, los talones de Aquiles y las benditas corvas. Quizá cuidarnos de no dejar de dar y dar la espalda, para salir del infierno. Pero no como Orfeo, el cursi. ¿Podremos no?

mercoledì, febbraio 17, 2016

"Lamento" y "Allegro racconto per Mario (senza stile, né utile)"


LAMENTO

Poder no poder dice,
natura, callada,
callada,
las ramas de un árbol suplicante
y raíces rojas,
rojas a la tierra.
Flores.
Gato hambriento nada mudo.
Tantos parlanchines.
Tantas taras,
que producen
¿qué producen?
Qué sueño tonto el del eterno hermafrodita.
Qué mundos de mentira.
Y ese humo sentado que escribe que da risa.
Y esa hueca cabeza que canta que te ama cuando el amor no se canta es un canto de por sì.
Y suelta, el grillo, su lengua nada ingenua.
Y el agua ya sin llanto y el río,
que suena, nada lleva.



ALLEGRO RACCONTO PER MARIO (SENZA STILE, NÉ UTILE)

Caro Mario,

- Cuentame algo un dia. Quello che vuoi basta che sia nel tuo stile. Una bella cosa che ti è capitata... Se ti va... - mi hai scritto l’altro giorno, dopo tanti anni.
Ma guarda che sei un vero paraculo però! Va bene.
Ci ho dovuto pensare per alcuni giorni perché veramente la situazione è tragica intorno. Qualche giorno fa un'altra donna, Anabel Flores, giornalista, è stata rapita, torturata e uccisa. Il papa è qui e non parla di quello che dovrebbe mentre mio padre sta morendo (come tutti, soltanto più velocemente) e non può parlare per effetti di certi oppiacei che aiutano con il dolore. Tutte le settimane (se non tutti i giorni), c’è una scena dello spettacolo dell’orrore: ragazzi e ragazze rapiti e assassinati o fatti scomparire; migranti disperati, corruzione e abusi da tutte le parti. Figurati che il tacchino di Natale cucinato da un maestro chef era scotto e, in più, andato a male. L’intera casa, curatissimamente addobbata a festa, puzzava di marcio mentre mia madre e mia sorella negavano quello che i loro delicati nasi urlavano ai quattro venti. Abbiamo mangiato il tacchino marcio lo stesso (metafora di tutto uno stile di vita). Ma aspetta, prima di dire altri deliri sappi che la richiesta di stile mi sembra una richiesta autoritaria. Poi io quasi tutti quelli che conosco che hanno uno stile sono degli stronzi. Manco posso dire manieristi, perché noi intendiamo il manierismo come una destituzione dello proprio, una distruzione metodica, una resistenza o esodo dal proprio stile (forse anche un abbandono del proprio stile-di-vita). Quindi diciamo qui meglio signatura per essere accondiscendenti con la l’ossessione che m’affligge. Per ultimo, scusa anche per il mio italiano, non è la mia lengua quella che parla, magari fosse quella de los muertos.

Quindi, una bella cosa. Dopo La grande bellezza, caro, mi metti in difficoltà. So quanto ti sembra mistificante Sorrentino ma è una mia debolezza, un mio limite (a proposito, che ne pensi d’Iñarritu?). Forse ti dovrei raccontare sulla bella e anticipata derrota che è stata “Il Chiquero”. Ti dico derrota perché una ragazza (piuttosto stronza) mi ha insegnato che viene dall’linguaggio marittimo, dallo slang dei marinai (anche profeti e balene), e significa insieme a “fallimento” anche “cambio di rotta”: il colpo di timone che si dà davanti a una minaccia incombente (sarà stronza, ma è molto intelligente). Comunque, il vero gesto nel “Porcile” solo trova il suo senso essenziale se il porcile si ferma, se gesta in un altro mondo. Aldiquà dell’aneddoto, uno no può prendersi sul serio quello che abbiamo detto, quello che Pasolini ha detto in quel pezzo, e non andarsene. E questo andarsene ha a che fare col nucleo di quel piccolo gesto, di quella obrita che è stata la messa in scena, che è la messa in scena di qualsiasi spettacolo. Quella piccola e inaudita messa in scena, quella derrota che taluni chiamano un successo, non avrebbe senso per me senza di questo andarsene. E così, questo andarsene ha a che fare con la tua domanda, con la cosa più bella che mi sia capitata da che sono tornato in questo paese senza aggettivi. Una cosa che è meno che una cosa, che è piuttosto una cosetta, una cosuccia e per di più, una cosaraccia di poca monta: un piccolo libro che mi è capitato e che, forse, tu già conosci.
Questo libro, che si dice una modesta contribuzione all’intelligenza del nostro tempo, non è un romanzo ma racconta, non è un libro di filosofia ma pensa, non è poesia ma nasconde un canto. Se ha una qualche somiglianza con un manifesto lo fa come un manifesto in meno, non prescrive eppure indica. Di certo non è un libro di rivelazione, eppure non poso non dire che c’è del mistero fra le sue righe. Parte della sua autorità radica precisamente nel suo non avere propriamente un autore. Se è un dispositivo di visione della situazione presente, non è sicuramente ideo-logico, perché il teatro d’operazioni non è mai ideologico, il suo sguardo è piuttosto frutto di esperienza, di un “empirismo di una specie molto particolare”, di gesto trascendentale, che l’unica cosa che trascende è la trascendenza stessa. Quell’immanentismo radicale, quindi, che si ritrova nei più interessanti pensatori sull’etica nell’occidente e non solo. Questo libro si chiama “Ai nostri amici”. Che dolcezza.
La storia di come mi sia capitato in mano questo libro è anch’essa bella e misteriosa. Circa dopo un anno di essere tornato in Messico, è venuto a trovarmi dall’Italia un amico, un giudice promiscuo (il termine è tecnico). Come è giusto che sia, l’ho portato in giro per il sud, per il Chiapas. Ci siamo fatti, come dovuto, tante fotografie insieme, molto belle, nella giungla, sui templi dei Maya, sulle rive del mare caraibico e nei paesini che parlano altre lingue. Il tutto è stato tramesso in diretta sul fecebook (abbonando così a certa reputazione omosessuale che mi sono fatto a Città del Messico, come se io fossi solo omossessuale, o solo bisessuale, o solo eterosessuale o transessuale; si sa poco dell’erotismo delle ninfe in questo mondo). Comunque, quello che invece è rimasto ostinatamente osceno di questo viaggio è stato l’incontro.
 In un paesino sulla costa del caraibe che si chiama Majahual, un pesino dove ero stato qualche anno prima insieme a Francesca e che ora e tutto controllato dai Z, lì, ho incontrato una civetta. Si, una civetta come quella che distingue Atena, dea degli artigiani, della sapienza, della guerra e si, anche di quel evento del incontro fra le leggi degli uomini e le leggi degli dei. L’ho incontrata in un antro piuttosto squallido (come diventano tutti i posti dove regge lo “stato d’eccezione”). Tequila, mariachi e sangria e già mezzo o molto ubriaco e cercando una storia d’amore dopo l’ennesimo e più brutto fallimento, mi sono avvicinato e l’ho invitata a danzare. Lei per scherzo girò la sua gonna e si mise a ballare e, come abbiamo danzato!, e lei disse il cuore del mio amore batte come mai più. Poi, senza preavviso, è volata via la strana civetta; perdendosi in mezzo al buio della notte tropicale. Allora pensai che non l’avrei incontrata mai più, però il destino (o quello che noi ingenui col segno di poi chiamiamo destino), scherzava in altri diagrammi per noi.
Appena arrivati in un altro porto io avevo la testa, come il solito, là, inchiodata a quegli occhi immensi che avevo lasciato. Che cosa è mai questa cosa senza nome? Quale tiranno mi comanda? Perché contro tutti gli affetti io debba osare quello che mai ho osato di osare? Sono io questo? O chi? E lei era lì. Mi attendeva sempre altra, serena, poggiata candida sulla verga d’un vascello naufragato. L’oscenità di quello che è successo dopo preferisco di no violentarla. Baste dire che siamo diventati amici, che lei è tornata molte altre volte e che continua a ritornare anche se la sua terra è lontanissima.
E’ stata lei, una civetta, questa civetta che era andata in una “piccola scuola” e che aveva toccato con le sue ali la realtà, colei che mi ha consegnato, un giorno qualsiasi, questo libro di cui ti ho parlato. Mentre lo metteva nelle mie mani ha detto soltanto “Questo libro è per te” per volare subito dopo in un silenzio che soltanto le civette bianche conoscono. Ed io, in mezzo a quel silenzio ho cominciato a leggere e non mi sono fermato più. Non mi sono fermato neanche dopo che questo libriccino è finito, perché infatti il libro non è la cosa più bella né più importante. Ho continuato a leggere e continuo ancora a leggere, ma quello che leggo forse non è mai stato scritto. Volevo fare fotocopie e condividere con tutti (i tre) amici che avevo questa scoperta, questa vertigine, questa scommessa. Sentivo d’essere parte di una congiura invisibile lontano da questo “stato d’eccezione” che è divenuto la regola. E quanto mi sono sorpreso nello scoprire che, infatti, ero già sempre invischiato in una congiura, ma non nel modo in cui credevo, o forse si? Congiurare: evocare ed espellere, bandire, abbandonare, divenire bandala. Perché lo stesso giorno in cui ho portato il testo in facoltà per fare delle fotocopie, mentre parlavo con un tipo, mi si è avvicinato un ragazzo, solo a me; e senza dire una parola mi ha consegnato un pezzo di carta, una fotocopia che diceva in sbiaditi caratteri “A nuestros amigos: encuentro para discutir el último libro del comité invisible”.
Sono andato a questo incontro non senza una giusta paranoia. E’ vero che lì dove appare uno qualsiasi possiamo aspettare, prima o poi, i carri armati, e infatti non è mancata la presenza, ancora discreta, dei servizi di “sicurezza”. Già lo sai che qui non importa se fai o non fai né quello che fai, comunque in qualsiasi momento puoi scomparire. Quindi più importante di quello, lì ho incontrato una banda di ragazzi e ragazze, sicuramente giovani (c’è chi mi accusa d’infantilismo perché non ha capito che “l’unica patria è l’in-fanzia”), coi quali stiamo imparando a divenire mezzi puri. Insieme cercando un gesto, una forma, un territorio o meglio, un terruño. Il terruño sta nel Chiapas, fra colline e fiumi. Non nelle zone degli amici che sono dovuto andare in Italia per capire di nuovo che sono i veri amici. E’ piuttosto in una zona di caciques e terratenientes. Trenta e trè ettari di giungla per trovare una forma. Lo sai in mezzo a questa bellezza ho ritrovato anche un altro libro, uno che tu e Betta mi hanno regalato. Nella dedica che hai scritto il 18 ottobre 2008 sul Walden dice: “consigli e strumenti di vita pratica per ‘ingannare’ il tempo”. Minkia! Pure Wittgenstein se ne è andato nel bosco e ha costruito una casuccia. Ecco il cuore di questa congiura. La potenza dello stare insieme (perché Walden e Ludwig, seppure in solitudine, non erano da soli). La vita nel costruire una casuccia, una tana forse. La vita nel esodo di un grancio.
 Ora si lavora, da vicino, da lontano, virtualmente ma non troppo, si buscano risonanze, accordi discordanti, contradizioni migliori di quelle che abbiamo qui, perché non tutto qui si riduce a due poli e quindi non sono manco propriamente contradizioni. Sono campi di forze, di affetti, di desideri, di misure e dismisure.  Sicuramente un incremento della potenza, un trovare molto di più di quanto uno si è portato nella mischia (o due, manco la terza persona basta per congiurare). Siamo danze di moltitudini sulle onde gravitazionali, mute e famiglie, tonali e nahuali coi visi colorati da un’infinita di lingue, lingue blue e arancione e più che tutti i pantone. Perché conformarsi solo con i colori presenti nell’arcobaleno?

Quindi caro Mario, ecco un frammento, un capitolo di una bella cosa che mi è capitata, che ancora mi sta capitando e che può non smettere di capitare e capitolare. Spero ti abbia strappato qualche sorriso. Sé lacrime, perfetto. Non sono le passioni tristi il problema, sono le passioni scomunali quelle che ci affliggono.
Ti abbraccio fortissima e spero in un tuo racconto, bello o brutto fa lo stesso. Basta che tu lo condivida con me.

                                 Tuo,
                                            v.

Ps.- Ti lascio anche un bel video argentino che forse può piacerti. 
                        https://vimeo.com/113569905
Ps2.- Un'altra bella storia: abito con due gatti. Due gatti trovati abbandonati nelle strade di questo mostro che ancora chiamiamo città. Uno, bruno, forte, agile e intelligente, si chiama Santos, ed è il gato montès. L’altro, biondo, buffo, timido, amoroso e nervoso, si chiama Magritte, ed è il gato burguès. Ho dovuto castrarli a entrambi (una decisione veramente difficilissima da prendere). Ma quello che già sapevo ma comunque ho imparato è che quelli che pensano che la potenza stia nelle palle, non solo sono ottusi (per non dire degli imbecilli), ma, soprattutto, non potranno, mai, divenire-gatti.