Oggi ho incontrato Mario. Mario è un mimmo-attore-fisico-sognatore che oggi, dopo raccontarmi le enormi fatiche e difficoltà che la strada che ha scelto comporta, ha confermato la sua convinzione nelle possibilità “rivoluzionarie” o rivoluzionarie del teatro come luogo di trasformazione individuale e collettiva. Io, come lui, pensavo e penso in queste possibilità, anzi, credevo e credo che fosse l’evento Teatro un tempo-spazio privilegiato, e che la strada teatrante (attore, regista o spettatore che sia), fosse un sentiero fortunato per l’apertura di un certo aperto.
Questa credenza e questo pensiero non si chiudono, ma sicuramente rinunciano a un qualsiasi privilegio, prerogativa o fortuna. Diventare egli stesso un’opera d’arte abitante del paradosso non è una caratteristica che appartiene in modo paradigmatico al mestiere dell’attore o all’evento Teatro, bensì e intrecciata ed operante in tutti e ogni uno degli ambiti, dei contorni, delle forme e dei rapporti che l’aperto non intende difendere. Se il teatro “gode” di una qualche fortuna questa si mostra principalmente nella forma di beata sventura in modo analogo a un pensiero/sentimento della giustizia che può prendere corpo solo tramite l’esperienza della ingiustizia.
E’ stanco il Teatro? Di tanto sacrificio? Di tanta vendita? Di tanta tecnica? Di tanti rovesciamenti delle sue stesse possibilità che si ritrovano quasi chiuse nel sistema? Non è stanca anche la giustizia nel sistema della legge e del diritto? Se non fosse perché non bisogna mai mollare… se non fosse perché è la resistenza alla resistenza la possibilitá estesa, la possibilitá della resistenza stessa… E vedete, anche qui non resisto all' aporia, ma c’è un modo di resistere senza resistenza e senza abbandono? Di sistemarsi senza sistematizzarsi? Di appartenere senza pertinenza o appartenenza?
E’ un funambolo quello che cerco, un funambolo triste e sorridente che non ha paura di cadere solo perché è caduto già.
1 commento:
imposible? no
Dificil? assoluto
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